È divampante l’energia che trasmette Michele Di Giacomo, direttore artistico del festival FU ME, mentre dialoga con noi. Diretto, appassionato e con una grinta invidiabile, Michele espone i nuclei fondamentali attorno cui ruota il suo lavoro a Cesena: il legame con il territorio, la volontà di avvicinare i più giovani all’esperienza teatrale e l’obiettivo di creare un ponte tra il passato e il presente, attraverso la riattualizzazione del mito classico. Quella che Michele lancia per la terza edizione del festival, in programma dal 29 giugno al 3 luglio 2022, è una coraggiosa sfida non solo a se stesso ma anche alla cittadinanza, ed è proprio grazie a sfide di questo tipo che l’arte ha modo di andare oltre i propri scenari e vivere in quell’espansione vitale senza la quale resterebbe imprigionata in polverose cornici, relegata a un pubblico di habitué. Ciò che ci auguriamo, in quanto giovani e appassionate di teatro, è che questa sfida venga vinta, e che porti dunque nuova linfa a quel delicato equilibrio tra i bisogni del territorio e quelli dell’arte, anch’essa in certo qual modo espressione delle necessità umane.

Intervista realizzata nell’ambito del “Laboratorio di giornalismo e sguardo critico” a cura di Altre Velocità.
FUTURE MEMORIE BLOG
Coordinamento: Alex Giuzio con Francesco Brusa e Giulia Damiano.

In redazione: Francesca D’Arielli, Denise Diaz Montalvo, Linda Fabbri, Angelica Fratini, Silvia Mastrangelo, Beatrice Monti, Eleonora Poli.

– – –

Michele, partiamo dell’impronta che hai dato quest’anno al festival, legata al tema del mito. In tutti gli spettacoli in programma c’è una figura mitologica che risemantizza un’attualità molto complessa. Perché hai scelto il mito per attualizzare questa complessità?

«Nel teatro, il passato mitologico è un riferimento importantissimo. Da sempre vengono riscritte le storie del mito, le quali sono così diventate in qualche modo archetipiche, e per questa edizione di FU ME ho avuto il desiderio di riflettere su come questo patrimonio possa essere percepito non come antico, distante e stantio, bensì come qualcosa che possa essere riletto e rivissuto da noi contemporanei. D’altronde il lavoro principale sin dalla prima edizione di FU ME, che è acronimo di “Future Memorie”, è indagare come le memorie del nostro passato possano essere uno strumento per la transizione verso il futuro. Tutto ciò è fondamentale soprattutto nei confronti del pubblico di under 30 a cui ci rivolgiamo, per far capire che non dobbiamo cancellare il patrimonio di cui siamo custodi, poiché fa parte di noi; anzi dovremmo cercare di conoscerlo e capire se può essere traghettato verso prospettive future. Su questa linea, ho cercato di impostare una programmazione molto fresca e allo stesso tempo urticante nonostante il riferimento ai classici: per esempio Kassandra di Sergio Blanco e Tiresias di Giorgina Pi sono spettacoli magnifici e con una dose di provocazione nei confronti del riferimento classico, o ancora Orfeo ed Euridice di César Brie, lavorando sul linguaggio poetico, fa una forzatura molto interessante sul complesso tema dell’eutanasia».

“Riscritture” è il tema della prossima edizione di FU ME. Cosa significa effettivamente riscrivere un poema classico o epico?

«A teatro non puoi fare a meno di riscrivere, e secondo me questo è uno degli elementi centrali dell’azione teatrale: l’attore in scena riscrive inevitabilmente il lavoro del regista, il regista riscrive il lavoro del drammaturgo, il drammaturgo riscrive la realtà. Ma la riscrittura non è propriamente creazione, bensì è una rimodulazione personale dell’artista, è il ridare nuovi abiti a qualcosa di esistente. Quindi secondo me il concetto di riscrittura ha a che fare con la circolazione creativa in sé e per sé, e nel nostro caso specifico credo sia un’azione artistica a carattere fortemente sociale più che politico. La politica è compromesso, e nell’arte non bisognerebbe mai scendere a compromessi; mentre il teatro dovrebbe essere agli antipodi della politica ed essere sociale nel senso di ridare nuova vita. Questa idea ho cercato di trasmetterla anche attraverso la grafica di quest’anno curata dallo Studio Luca Sarti, a cui ho chiesto di dare l’idea di qualcosa di vitale: così sono nate queste onde che tornano dal passato e riverberano in maniera diversa per ognuno di noi. In definitiva, vogliamo dare l’idea della riscrittura come se fosse una dinamica perenne, quella del passato come un’onda che ci investe sempre».

FU ME è molto incentrato sull’aspetto territoriale e sul legame fisico con la città di Cesena e cerca di coinvolgere soprattutto il pubblico under 30. Come intendi attirare i più giovani?

«Un festival che si tiene in una città di provincia non può che essere in forte relazione con il territorio; non può essere pensato come un corpo estraneo, perché altrimenti verrebbe rigettato, bensì deve crescere in armonia col territorio, viverlo e possibilmente diventarne un’esigenza. Con FU ME partiamo dunque dal territorio, ma con l’intenzione di aprirci non solo a esso. Bisogna stimolare il territorio e restarne in ascolto per capire da chi è formato, chi sono le persone di questa città, cosa fanno abitualmente, se possono ascoltare le nostre proposte. A tal fine abbiamo una forte presenza di associazioni locali, ovvero quegli elementi virtuosi che lavorano attorno agli stessi temi affrontati negli spettacoli, e che ho deciso di integrare nel festival. Per esempio di fianco allo spettacolo Filottete, che racconta la storia di un uomo affetto da malattia mentale all’interno di una RSA, ci sarà una mostra fotografica progettata insieme alla Fondazione Don Baronio e curata dalle artiste Chiara Pavoluzzi e Caterina Basler, le quali hanno avuto la possibilità di parlare con persone che vivono all’interno delle RSA».

Fino all’anno scorso il festival si svolgeva solo a Villa Silvia, mentre quest’anno sono in programma anche eventi in centro città. Perché questa scelta?

«Abbiamo voluto ingrandirci, quindi l’idea di avere location differenti, che sono comunque unite dall’esistenza del festival, fa considerare FU ME come una forma che si espande in più aree. L’idea di stare solo a Villa Silvia, che simboleggiava una sorta di “luogo protetto”, non mi sembrava sufficiente poiché si restava lontani dalla città. Mi sono detto invece che se il nostro lavoro è sul territorio, dobbiamo andarci. Per questo abbiamo scelto come location del Filottete dimenticato un’ex chiesa sconsacrata in centro e faremo gli incontri con gli artisti, sotto forma di talk radio curata da Altre Velocità, nella piazzetta di Corte Dandini: la mattina i cesenati andranno a spasso col cane o con i bambini e si imbatteranno nel festival».

Sei cesenate ma ti sei formato e vivi a Milano. Cosa ti ha dato una città culturalmente viva come il capoluogo lombardo da restituire alla tua città di origine in cui lavori?

«Milano è una vetrina in cui vedere lavori artistici che vengono dall’Europa e da altri paesi, ma in Romagna abbiamo la fortuna che queste cose arrivano anche qui. Perciò con FU ME non mi sento di portare delle cose nuove, anzi, sento che il territorio intorno a me è molto stimolante e può insegnarmi tanto. Non ho la presunzione di dire che porto in provincia qualcosa che la provincia non ha mai visto; anzi, questa provincia ha visto di meglio e di nuovo. Semplicemente, cerco di portare quella che è la mia visione. Milano è una città virtuosa artisticamente, ma già piena di proposte e molto ben strutturate. Creare uno spazio nuovo in una città come Milano è molto più complesso, mentre farlo in una città di provincia è più semplice, ma anche più importante. Il festival si fa in un luogo e tu devi ascoltare quel luogo e definire i caratteri di quel festival. Non è come fare uno spettacolo in un teatro, per cui mettendo piede in un teatro entri in un mondo diverso. In ogni caso, a Cesena ci sono istituzioni molto forti e radicate ma ancora mancava un festival indipendente con un’offerta sul contemporaneo. Sentivo questa mancanza e per questo ho creato FU ME».

Sei attore, regista e direttore artistico di festival. Qual è il tratto di queste tre professioni che più ti appaga?

«Sono tre professioni simili, ma allo stesso tempo profondamente diverse. Negli ultimi due anni mi sono dedicato più alla direzione artistica e alla regia, e ho lasciato un po’ da parte la recitazione che invece fino a cinque anni fa era la mia attività principale. La cosa meravigliosa della recitazione è il palcoscenico, ovvero quel momento di totale perdita di controllo a contatto con il pubblico. Dopo tutto un lavoro di preparazione per arrivare alle coordinate di senso richieste dal regista affinché il testo diventi vivo, in quell’ora e mezza di messa in scena ci sei solo tu attore, e questa è una magia unica. La regia, invece, implica uno sguardo sia dentro che fuori, in quanto bisogna pensare sia a come condurre l’attore nel modo migliore possibile, sia ad avere uno sguardo complessivo del palco, ed è un ruolo che personalmente mi appaga e mi dà un senso di controllo. Infine, della direzione artistica ciò che preferisco è la possibilità di un’apertura dello sguardo su tutto quello che riguarda le arti performative e il teatro nel suo insieme. Se sei sul palcoscenico devi preoccuparti della tua interpretazione, se sei regista devi preoccuparti della messa in scena, mentre la direzione artistica ti porta a pensare a cosa può raccontare uno spettacolo insieme a un altro e come comunicarlo al pubblico: sei impegnato a creare un racconto più ampio e soprattutto non sai assolutamente come verrà preso, dal momento che il festival lo fa chi lo vive».

intervista a cura di Francesca D’Arielli e Angelica Fratini

È divampante l’energia che trasmette Michele Di Giacomo, direttore artistico del festival FU ME, mentre dialoga con noi. Diretto, appassionato e con una grinta invidiabile, Michele espone i nuclei fondamentali attorno cui ruota il suo lavoro a Cesena: il legame con il territorio, la volontà di avvicinare i più giovani all’esperienza teatrale e l’obiettivo di creare un ponte tra il passato e il presente, attraverso la riattualizzazione del mito classico. Quella che Michele lancia per la terza edizione del festival, in programma dal 29 giugno al 3 luglio 2022, è una coraggiosa sfida non solo a se stesso ma anche alla cittadinanza, ed è proprio grazie a sfide di questo tipo che l’arte ha modo di andare oltre i propri scenari e vivere in quell’espansione vitale senza la quale resterebbe imprigionata in polverose cornici, relegata a un pubblico di habitué. Ciò che ci auguriamo, in quanto giovani e appassionate di teatro, è che questa sfida venga vinta, e che porti dunque nuova linfa a quel delicato equilibrio tra i bisogni del territorio e quelli dell’arte, anch’essa in certo qual modo espressione delle necessità umane.

Intervista realizzata nell’ambito del “Laboratorio di giornalismo e sguardo critico” a cura di Altre Velocità.
FUTURE MEMORIE BLOG
Coordinamento: Alex Giuzio con Francesco Brusa e Giulia Damiano.

In redazione: Francesca D’Arielli, Denise Diaz Montalvo, Linda Fabbri, Angelica Fratini, Silvia Mastrangelo, Beatrice Monti, Eleonora Poli.

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Michele, partiamo dell’impronta che hai dato quest’anno al festival, legata al tema del mito. In tutti gli spettacoli in programma c’è una figura mitologica che risemantizza un’attualità molto complessa. Perché hai scelto il mito per attualizzare questa complessità?

«Nel teatro, il passato mitologico è un riferimento importantissimo. Da sempre vengono riscritte le storie del mito, le quali sono così diventate in qualche modo archetipiche, e per questa edizione di FU ME ho avuto il desiderio di riflettere su come questo patrimonio possa essere percepito non come antico, distante e stantio, bensì come qualcosa che possa essere riletto e rivissuto da noi contemporanei. D’altronde il lavoro principale sin dalla prima edizione di FU ME, che è acronimo di “Future Memorie”, è indagare come le memorie del nostro passato possano essere uno strumento per la transizione verso il futuro. Tutto ciò è fondamentale soprattutto nei confronti del pubblico di under 30 a cui ci rivolgiamo, per far capire che non dobbiamo cancellare il patrimonio di cui siamo custodi, poiché fa parte di noi; anzi dovremmo cercare di conoscerlo e capire se può essere traghettato verso prospettive future. Su questa linea, ho cercato di impostare una programmazione molto fresca e allo stesso tempo urticante nonostante il riferimento ai classici: per esempio Kassandra di Sergio Blanco e Tiresias di Giorgina Pi sono spettacoli magnifici e con una dose di provocazione nei confronti del riferimento classico, o ancora Orfeo ed Euridice di César Brie, lavorando sul linguaggio poetico, fa una forzatura molto interessante sul complesso tema dell’eutanasia».

“Riscritture” è il tema della prossima edizione di FU ME. Cosa significa effettivamente riscrivere un poema classico o epico?

«A teatro non puoi fare a meno di riscrivere, e secondo me questo è uno degli elementi centrali dell’azione teatrale: l’attore in scena riscrive inevitabilmente il lavoro del regista, il regista riscrive il lavoro del drammaturgo, il drammaturgo riscrive la realtà. Ma la riscrittura non è propriamente creazione, bensì è una rimodulazione personale dell’artista, è il ridare nuovi abiti a qualcosa di esistente. Quindi secondo me il concetto di riscrittura ha a che fare con la circolazione creativa in sé e per sé, e nel nostro caso specifico credo sia un’azione artistica a carattere fortemente sociale più che politico. La politica è compromesso, e nell’arte non bisognerebbe mai scendere a compromessi; mentre il teatro dovrebbe essere agli antipodi della politica ed essere sociale nel senso di ridare nuova vita. Questa idea ho cercato di trasmetterla anche attraverso la grafica di quest’anno curata dallo Studio Luca Sarti, a cui ho chiesto di dare l’idea di qualcosa di vitale: così sono nate queste onde che tornano dal passato e riverberano in maniera diversa per ognuno di noi. In definitiva, vogliamo dare l’idea della riscrittura come se fosse una dinamica perenne, quella del passato come un’onda che ci investe sempre».

FU ME è molto incentrato sull’aspetto territoriale e sul legame fisico con la città di Cesena e cerca di coinvolgere soprattutto il pubblico under 30. Come intendi attirare i più giovani?

«Un festival che si tiene in una città di provincia non può che essere in forte relazione con il territorio; non può essere pensato come un corpo estraneo, perché altrimenti verrebbe rigettato, bensì deve crescere in armonia col territorio, viverlo e possibilmente diventarne un’esigenza. Con FU ME partiamo dunque dal territorio, ma con l’intenzione di aprirci non solo a esso. Bisogna stimolare il territorio e restarne in ascolto per capire da chi è formato, chi sono le persone di questa città, cosa fanno abitualmente, se possono ascoltare le nostre proposte. A tal fine abbiamo una forte presenza di associazioni locali, ovvero quegli elementi virtuosi che lavorano attorno agli stessi temi affrontati negli spettacoli, e che ho deciso di integrare nel festival. Per esempio di fianco allo spettacolo Filottete, che racconta la storia di un uomo affetto da malattia mentale all’interno di una RSA, ci sarà una mostra fotografica progettata insieme alla Fondazione Don Baronio e curata dalle artiste Chiara Pavoluzzi e Caterina Basler, le quali hanno avuto la possibilità di parlare con persone che vivono all’interno delle RSA».

Fino all’anno scorso il festival si svolgeva solo a Villa Silvia, mentre quest’anno sono in programma anche eventi in centro città. Perché questa scelta?

«Abbiamo voluto ingrandirci, quindi l’idea di avere location differenti, che sono comunque unite dall’esistenza del festival, fa considerare FU ME come una forma che si espande in più aree. L’idea di stare solo a Villa Silvia, che simboleggiava una sorta di “luogo protetto”, non mi sembrava sufficiente poiché si restava lontani dalla città. Mi sono detto invece che se il nostro lavoro è sul territorio, dobbiamo andarci. Per questo abbiamo scelto come location del Filottete dimenticato un’ex chiesa sconsacrata in centro e faremo gli incontri con gli artisti, sotto forma di talk radio curata da Altre Velocità, nella piazzetta di Corte Dandini: la mattina i cesenati andranno a spasso col cane o con i bambini e si imbatteranno nel festival».

Sei cesenate ma ti sei formato e vivi a Milano. Cosa ti ha dato una città culturalmente viva come il capoluogo lombardo da restituire alla tua città di origine in cui lavori?

«Milano è una vetrina in cui vedere lavori artistici che vengono dall’Europa e da altri paesi, ma in Romagna abbiamo la fortuna che queste cose arrivano anche qui. Perciò con FU ME non mi sento di portare delle cose nuove, anzi, sento che il territorio intorno a me è molto stimolante e può insegnarmi tanto. Non ho la presunzione di dire che porto in provincia qualcosa che la provincia non ha mai visto; anzi, questa provincia ha visto di meglio e di nuovo. Semplicemente, cerco di portare quella che è la mia visione. Milano è una città virtuosa artisticamente, ma già piena di proposte e molto ben strutturate. Creare uno spazio nuovo in una città come Milano è molto più complesso, mentre farlo in una città di provincia è più semplice, ma anche più importante. Il festival si fa in un luogo e tu devi ascoltare quel luogo e definire i caratteri di quel festival. Non è come fare uno spettacolo in un teatro, per cui mettendo piede in un teatro entri in un mondo diverso. In ogni caso, a Cesena ci sono istituzioni molto forti e radicate ma ancora mancava un festival indipendente con un’offerta sul contemporaneo. Sentivo questa mancanza e per questo ho creato FU ME».

Sei attore, regista e direttore artistico di festival. Qual è il tratto di queste tre professioni che più ti appaga?

«Sono tre professioni simili, ma allo stesso tempo profondamente diverse. Negli ultimi due anni mi sono dedicato più alla direzione artistica e alla regia, e ho lasciato un po’ da parte la recitazione che invece fino a cinque anni fa era la mia attività principale. La cosa meravigliosa della recitazione è il palcoscenico, ovvero quel momento di totale perdita di controllo a contatto con il pubblico. Dopo tutto un lavoro di preparazione per arrivare alle coordinate di senso richieste dal regista affinché il testo diventi vivo, in quell’ora e mezza di messa in scena ci sei solo tu attore, e questa è una magia unica. La regia, invece, implica uno sguardo sia dentro che fuori, in quanto bisogna pensare sia a come condurre l’attore nel modo migliore possibile, sia ad avere uno sguardo complessivo del palco, ed è un ruolo che personalmente mi appaga e mi dà un senso di controllo. Infine, della direzione artistica ciò che preferisco è la possibilità di un’apertura dello sguardo su tutto quello che riguarda le arti performative e il teatro nel suo insieme. Se sei sul palcoscenico devi preoccuparti della tua interpretazione, se sei regista devi preoccuparti della messa in scena, mentre la direzione artistica ti porta a pensare a cosa può raccontare uno spettacolo insieme a un altro e come comunicarlo al pubblico: sei impegnato a creare un racconto più ampio e soprattutto non sai assolutamente come verrà preso, dal momento che il festival lo fa chi lo vive».

intervista a cura di Francesca D’Arielli e Angelica Fratini